Speciale parlamentari ungheresi 2022

A cura della redazione di Centrum Report


Le elezioni parlamentari ungheresi di domenica 3 aprile rappresentano uno spartiacque nella politica europea, in un momento in cui l’Europa cerca di fare fronte comune nei confronti della Russia. Non è un mistero che il primo ministro Viktor Orbán intrattenga da anni rapporti più che cordiali con Vladimir Putin e agli occhi di molti la sua posizione nei confronti di Mosca durante questa prima fase del conflitto, è sembrata troppo morbida. Dall’esito di questa tornata elettorale dipendeva non solo il futuro della politica interna ungherese, ma anche quello delle politiche di Bruxelles.

A distanza di una settimana dal voto, abbiamo quindi deciso di preparare una speciale puntata podcast che ha coinvolto l’intera redazione. Un modo per cercare di comprendere com’è andata, come si è arrivati, e dove andrà ora l’Ungheria. A integrazione del podcast potete trovare i testi di aperture e di chiusura, link ai servizi giornalistici citati nella nostra rassegna stampa e una speciale sezione Twitter con le reazioni dei protagonisti.

Buon ascolto e buona lettura!


Una vittoria schiacciante per Orbán, una sconfitta storica per l’opposizione

Viktor Orbán resta alla guida dell’Ungheria. Per il quarto mandato consecutivo, il quinto in totale. Governa ininterrottamente dal 2010 e si appresta a farlo fino al 2026. Domenica 3 aprile le urne delle parlamentari hanno consegnato al suo partito, Fidesz, il 53,7% dei voti. Grazie anche al sistema elettorale misto in vigore nel Paese, si traducono in 134 seggi su 199 nell’Assemblea nazionale, il parlamento di Budapest. Una maggioranza schiacciante. 

Pessimo il risultato della coalizione d’opposizione Uniti per l’Ungheria, che raggruppava sei partiti - dalla destra di Jobbik ai Verdi, passando per i socialisti - e pareva tallonare Fidesz negli ultimi sondaggi della vigilia. A scrutinio concluso ha conquistato appena il 34,6% delle preferenze. I voti di lista nel proporzionale spiegano fin troppo bene la catastrofe della coalizione: nel 2018 la somma dei suoi partiti aveva raccolto due milioni e 695 mila voti. Uniti per l’Ungheria, invece, ne ha ottenuti un milione e 808 mila, smarrendo quasi 900 mila preferenze, mentre Fidesz ne ha guadagnate 100mila rispetto a quattro anni fa.

Questa volta non si è ripetuto l’inatteso risultato del voto amministrativo dell’ottobre 2019, quando i partiti d’opposizione strapparono a Fidesz sia Budapest che alcune grandi città del Paese quali Pécs e Szeged. Solo nella capitale ha prevalso la coalizione d’opposizione, ma con un margine più ridotto di due anni e mezzo fa. Ad aggravare il quadro per Uniti per l’Ungheria vi è l’ingresso nell’aula parlamentare, grazie al 6,1% dei voti, dell’estrema destra del Movimento Patria Nostra, nato da una costola di Jobbik. 

«È una vittoria così larga che si può vedere dalla Luna, sicuramente da Bruxelles», ha esultato Orbán nel suo primo discorso di vittoria, domenica notte. Poi ha elencato quelli che considera i suoi avversari. La lista include «la sinistra internazionale», i «burocrati di Bruxelles», il finanziere e filantropo ebreo di origine ungherese George Soros e persino il presidente ucraino Volodymyr Zelensky.


Dalla stampa italiana e internazionale

Le elezioni ungheresi hanno avuto ampia eco sulla stampa italiana ed estera. Abbiamo raccolto per voi una selezione di articoli che potete trovare sul longform che accompagna questo podcast, dove potrete trovare anche i tweet a caldo di politici e giornalisti ungheresi. 

In Italia, Il Post ha sottolineato alcuni dei fattori che hanno condizionato pesantemente il risultato: la presenza pervasiva del primo ministro sui canali di comunicazione pubblici, al contrario dell’opposizione a cui sono stati concessi solo cinque minuti in totale; il finanziamento pubblico alla campagna elettorale di Fidesz; la ridefinizione dei collegi elettorali secondo la pratica del gerrymandering, che assegna un decisivo vantaggio al partito di Orbán per i seggi assegnati con il maggioritario. 

Il Sole 24 Ore ha titolato invece “Maggioranza schiacciante, opposizione inerme”. Il Fatto Quotidiano riporta un estratto del discorso che Orbán ha tenuto la sera stessa del trionfo elettorale «Vittoria contro i media mainstream e il presidente ucraino», due del lungo elenco di nemici presentato dal primo ministro magiaro. 

All’estero il sito della BBC ha aperto invece con un titolo che pone l’accento sul malessere europeo nei confronti di questo risultato. «La vittoria di Orbán significa un mal di testa per l’Unione europea. Si è potuto quasi sentire il tonfo collettivo dei cuori europei che sprofondavano domenica notte, mentre Viktor Orbán pronunciava il suo discorso della vittoria». Un titolo probabilmente un po’ troppo melodrammatico, ma interessante da chi ormai osserva le vicende europee con occhio esterno. Va annotato che il 5 aprile la Commissione europea ha avviato il procedimento del meccanismo di condizionalità dei fondi comunitari, che bloccherà i soldi del bilancio Ue all’Ungheria. Se ci si aspettava una reazione, ecco questa c’è stata. 

Politico, in un articolo di analisi firmato da Lili Bayer pone il focus sulla politica internazionale di Orbán, sia per quanto riguarda il suo ruolo centrale nel tessere alleanze con le destre europee, sia per la sempre maggiore influenza nella regione, specialmente nei Balcani occidentali.

In Germania la Süddeutsche Zeitung dedica alle elezioni ungheresi un titolo allarmistico «Attenzione, rischio di infezione!». Il riferimento è alla possibilità che il modello autocratico di governo si diffonda all’interno dell’Unione europea.

E intanto a Belgrado, al di fuori dei confini dell’Unione, ma poco distante in termini di chilometri da Budapest, Aleksandar Vučić ha festeggiato il suo secondo mandato come presidente della Serbia. Una vittoria scontata quasi quanto quella di Orbán, giunta nello stesso giorno delle elezioni ungheresi. Il New York Times traccia un collegamento tra i risultati ottenuti da due leader tra loro molto simili e che hanno un ingombrante amico in comune: Vladimir Putin.
Sulla stessa falsariga lo spagnolo El Pais, che titola «Le elezioni in Ungheria e Serbia, consolidano gli alleati di Putin in Europa nonostante la guerra». 

E infine spostiamoci in Polonia, nostro osservatorio privilegiato di quanto avviene in questa parte d’Europa, e spettatore interessato delle vicende magiare. I governi polacco e ungherese intrattengono da anni una stretta amicizia in nome dell’antiliberalismo e contro Bruxelles. Sul capo di entrambi pende la spada di Damocle dell’articolo 7 del Trattato di Lisbona, a causa del loro mancato rispetto dello stato di diritto. Un’arma spuntata nelle mani dell’Europa, che potrebbe farla valere solo in caso di unanimità. 

L’unanimità però non esiste proprio perché Polonia e Ungheria si coprono a vicenda le spalle. Tuttavia, i rapporti tra i due Paesi negli ultimi tempi si sono raffreddati, a causa della posizione ungherese nei confronti dell’invasione russa dell’Ucraina: troppo morbida secondo Varsavia. Nonostante ciò, l’opposizione polacca ritiene che Diritto e Giustizia, il partito che governa la Polonia dal 2015, sia ancora troppo ambiguo. Gazeta Wyborcza, il quotidiano liberale più influente del Paese, commenta pungente un editoriale del direttore di Sieci, settimanale molto vicino al partito di Kaczyński nel quale ci si rallegra della larga vittoria di Orban. «La Polonia potrà ancora contare sull’Ungheria nella sua lotta con l’Unione europea» afferma. «Cos’è allora più importante per la destra? - si chiede allora Gazeta Wyborcza - L'unità dell'Occidente verso la Russia o il proseguimento della dannosa e stupida guerra con l'Ue, in cui Orbán sostiene Kaczyński?»

Rzeczpospolita dedica invece spazio al discorso di Orbán sui nemici che ha dovuto combattere, evidenziando la sua stilettata a Zelensky. E chiudiamo la nostra rassegna con la posizione di Wprost, settimanale più spostato su posizioni conservatrici, che riporta le parole del premier polacco Mateusz Morawiecki, il quale ha sottolineato come si tratti della quarta affermazione consecutiva e la più larga vittoria di una maggioranza costituzionale, e le elezioni democratiche devono essere rispettate.


Reazioni Twitter


Il candidato dell’opposizione unita Péter Márki-Zay invita a non disunirsi (non lasciatevi le mani l’uno dell’altro) nel primo commento dopo la pubblicazione dei risultati che hanno condannato Uniti per l’Ungheria, il cartello elettorale da lui guidato, a una disfatta.

La neo eletta presidente della Repubblica Katalin Novák, non nasconde la sua soddisfazione per il risultato. La nomina di Novák alla più alta carica dello Stato è stata fortemente voluta da Orbán, che si fida ciecamente di lei. Novák è stata per alcuni mesi ministro della Famiglia durante l’ultima legislatura.

Il giornalista investigativo Szabolcs Panyi pone l’accento sullo strano discorso della vittoria di Orbán, in cui ha attaccato il presidente ucraino Zelensky. L’estate scorso è emerso che Panyi è stato una delle persone sorvegliate tramite lo spyware israeliano Pegasus, acquistato dal governo ungherese e utilizzato per sorvegliare giornalisti e personalità vicine all’opposizione.

La giornalista Réka Kinga Papp di Eurozine non usa mezzi termini definire il governo Orbán: “una cleptocrazia guidata da una leadership incompetente e autoritaria”.

Katalin Halmai, giornalista di Nepszava è invece di parere differente. Le dispiace che molti amici stiano considerando di lasciare il Paese. Lei non sarà tra loro.

Dove va Budapest


Di sicuro l’Ungheria esce da questa tornata elettorale più isolata a livello internazionale. Orbán ha scelto di non inimicarsi Vladimir Putin nella speranza - o nell’illusione - di evitare ripercussioni sulle bollette dei propri connazionali, che oggi ricevono almeno il 50% del proprio gas e della propria energia dalla Russia. Ecco perché il premier ungherese ha aperto alla possibilità di pagare il gas del Cremlino in rubli, come vorrebbe Putin. Durante la campagna elettorale Orbán ha ripetuto di non voler coinvolgere gli ungheresi in una guerra che non gli appartiene e tuttora impedisce il transito dall’Ungheria di armamenti per Kiev. Questa strategia ha pagato alle urne, ma non con l’Unione europea e con i tradizionali alleati del gruppo Visegrád: Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia. 

Come accennato, la Commissione europea ha avviato il meccanismo di condizionalità dei fondi comunitari nei confronti dell'Ungheria. Varsavia, Praga e Bratislava, invece, disapprovano le posizioni tenute da Budapest verso l’invasione russa dell’Ucraina e hanno disertato un meeting a quattro sulla Difesa il 30 marzo. Il gruppo Visegrád, insomma, si sta sfaldando. In particolare, l’inattesa rottura con la Polonia potrebbe spingere Orbán a rafforzare l’alleanza con un Paese certo non ostile a Mosca, la Serbia del presidente Aleksandar Vučić.

Un’intesa fra Budapest e Belgrado farebbe comodo alla Russia e potrebbe avere serie ripercussioni sugli equilibri geopolitici europei e della Nato stessa. Un’eventualità che Orbán si è affrettato a smentire il 6 aprile in una conferenza stampa nella quale ha ribadito di vedere il proprio Paese come un membro dell’Ue e dell’Alleanza atlantica. Tuttavia il fatto di essersi contemporaneamente proposto come ‘mediatore’ fra Putin e l’Occidente, suggerendo di ospitare in Ungheria colloqui di pace, conferma come il quattro volte premier non intenda schierarsi sull’Ucraina. Il sospetto è che Orbán desideri approfittare della situazione per ritagliarsi una ribalta internazionale.


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