Polonia, fez, Vienna e caffè

di Lorenzo Berardi


Il 13 agosto 1683 uno sconfinato accampamento di 25mila candide tende circondava le mura di Vienna. Per la terza volta negli ultimi due secoli la città era assediata dall'esercito ottomano e mai come in questo caso le prospettive dei suoi difensori erano precarie: scarseggiavano le munizioni e un'epidemia di dissenteria dovuta al caldo e alle pessime condizioni igeniche stava decimando soldati e civili della guarnigione. Dopo un mese ininterrotto di assedio era evidente che senza alcun aiuto esterno l'allora capitale del Sacro Romano Impero sarebbe presto finita nelle mani del Gran Visir di Costantinopoli Kara Mustafa Pascià e dei suoi 150mila soldati turchi, tatari e valacchi. Gli ottomani stessi erano talmente convinti di conquistare la città per sfinimento nel giro di pochi giorni da limitarsi a isolati cannoneggiamenti delle mura viennesi, concentrandosi sul saccheggio delle campagne circostanti. Per loro l'aspetto essenziale era infatti tagliare i rifornimenti, impedendo alle derrate alimentari di raggiungere Vienna.

Quella sera, al calar delle tenebre, due uomini uscirono di nascosto dalle mura della città accerchiata sfruttando un passaggio segreto. Entrambi indossavano le uniformi dei soldati ottomani, ma si trattava di polacchi: Jerzy Franciszek Kulczycki e Jan Michałowicz. Non erano né disertori né doppiogiochisti, ma avevano una missione cruciale da compiere. Il conte Ernst von Stahremberg, a capo della disperata difesa di Vienna, li aveva incaricati di attraversare l'accampamento ottomano per raggiungere le linee austriache e chiedere soccorso. A loro vantaggio vi era il fatto che il poliglotta Kulczycki parlasse un turco impeccabile e un arabo passabile (oltre al tedesco, all'ungherese, al serbo e al rumeno). Per non destare sospetti nei soldati ottomani di passaggio si mise a canticchiare un allegro motivetto turco.

Anche grazie a questo stratagemma i due polacchi riuscirono a superare il mare di tende nemiche senza essere notati e a raggiungere il comandante capo delle forze austriache, Carlo V di Lorena. Non solo lo informarono sulle difficili condizioni all'interno delle mura, ma gli comunicarono anche alcuni importanti dettagli strategici sul posizionamento delle forze ottomane che avevano notato durante il loro percorso. Completato il loro lavoro d'intelligence, girarono i tacchi e fecero ritorno nella città assediata, solcando per la seconda volta in poche ore l'accampamento degli assedianti. La consapevolezza che un aiuto sarebbe arrivato da un momento all'altro a seguito della missione di Kulczycki e Michałowicz permise a Vienna di resistere per un altro mese. Fra l'11 e il 12 settembre una coalizione guidata dal re polacco Jan Sobieski sorprese le forze ottomane, sconfggendole e bloccando così un'avanzata turca in Europa che pareva inevitabile. Le informazioni raccolte dai due polacchi durante la loro sortita in territorio nemico giocarono un ruolo fondamentale nell'indirizzare le sorti di quella battaglia. 

‘Entsatzschlacht von Wien 1683’. opera di Frans Geffels esposta al Wien Museum Karlsplatz

‘Entsatzschlacht von Wien 1683’. opera di Frans Geffels esposta al Wien Museum Karlsplatz

Mangime per cammelli

Gli austriaci decisero di ricompensare Kulczycki per il suo aiuto donandogli un terreno nel sobborgo di Leopoldstadt – dove oggi sorge il parco Prater – e una lauta somma in denaro oltre a nominarlo traduttore ufficiale dal turco per l'imperatore Leopoldo I. Re Jan Sobieski in persona gli chiese di indicare qualsiasi altra cosa desiderasse fra quanto abbandonato sul campo dai turchi in fuga. Kulczycki non si fece pregare. Un'idea imprenditoriale gli frullava già nella testa. E lasciò tutti di stucco quando, ignorando rari broccati, pietre preziose, animali esotici e decine di cannoni, scelse per sé una catasta di sacchi di tela grezza. 

Gli ex assedianti ne avevano lasciati così tanti nel loro accampamento da incuriosire i viennesi. Una prima ispezione del loro contenuto, però, si era rivelata una delusione: quei semi duri, dal colore verde scuro e simili a piccole conchiglie dovevano essere un qualche mangime orientale per i cinquemila cammelli o i diecimila buoi al seguito dell'esercito del Gran Visir. Solo Kulczycki, che aveva vissuto a lungo fra Serbia e Turchia, conosceva la verità sul loro conto. Nella fretta della loro ritirata gli ottomani erano stati costretti ad abbandonare alle porte di Vienna uno dei loro beni più cari e preziosi: cinquecento sacchi colmi di quintali di chicchi di caffè non ancora tostati. 

A dire il vero, la bevanda nota già da due secoli nel mondo musulmano come kahvee e proveniente dall'odierno Yemen non era sconosciuta in Europa. Già nel 1651, la prima coffeehouse del Vecchio Continente aveva aperto a Oxford, fondata da un ebreo turco di origine armena, Harutiun Vartian, che aveva occidentalizzato il proprio nome in Pasqua Rosée. L'anno seguente fu sempre lui a inaugurare il primo locale che serviva “piatti di caffè” a Londra mentre nel 1672, trasferitosi a Parigi, vi aprì un proprio café. Inizialmente, la nuova esotica infusione costava cifre esorbitanti ed era un privilegio di pochi in maniera simile al tè, arrivato in Europa dalla Cina nello stesso periodo. 

Nel suo pamphlet pubblicitario 'The Vertue of the Coffee Drink', pubblicato nel 1652, Rosée sosteneva che la bevanda fosse un toccasana per gli occhi gonfi e che contrastasse la tosse oltre a “prevenire la sonnolenza, donando energie per condurre affari”. Caratteristica, quest'ultima, apprezzata da molti dei sofisticati avventori che sorseggiavano caffè fra Londra e Parigi nonostante non ne amassero affatto il sapore decisamente amaro che annacquavano o mascheravano con copiose quantità di miele. Di fatto l'abitudine del caffè si diffuse a tal punto che già nel 1663 la capitale britannica contava 82 coffeehouse, divenute centri di dibattito politico e culturale immortalati anche nei celebri diari di Samuel Pepys.

La nascita del caffè alla viennese

A Vienna, però, quella scura bevanda che stava seducendo gli inglesi e i francesi più abbienti non era ancora arrivata. E Kulczycki decise così di importarvi di sana pianta la tradizionale cultura del caffè che aveva conosciuto nel mondo musulmano, ignorando i modelli londinesi e parigini. In realtà su chi aprì la prima kaffeehaus viennese tostando quei chicchi lasciati dall'esercito ottomano alle porte della città esistono due versioni: una sostiene che si trattò dell'armeno Johannes Diodato nel 1685, l'altra che fu Kulczycki già nel 1683. 

Di sicuro il primo caffè aperto da quest'ultimo si trovava lungo la Singerstrasse e fu un buco nell'acqua. Il proprietario credeva che anche i facoltosi viennesi avrebbero apprezzato l'arabica che furoreggiava a Costantinopoli servendola alla stessa maniera: bollente, non zuccherata e non filtrata, ma si sbagliava di grosso. Ai suoi avventori quel liquido amaro, stopposo e ustionante proveniente dal mondo musulmano non piacque affatto. Evidentemente lo smaliziato polacco non conosceva l'opinione poco lusighiera in merito al caffè “alla turca” espressa dal poeta suo connazionale Jan Andrzej Morsztyn, che nel 1670 scrisse:

A Malta, ricordo, caffè gustammo

brodaglia per Murad, Mustafa o'l Sultano

E i turchi non so, ma sì disgustosa

bevanda, tossica e pur velenosa 

che poi su' denti saliva non promana

giammai non profani bocca cristiana”. *


Kulczycki fu quindi costretto a chiudere bottega e a interrogarsi su come rendere quella bevanda più appetibile ai gusti mitteleuropei. La quadratura del cerchio arrivò con un'idea semplice ma geniale: aggiungere latte cremoso, zucchero e miele al caffè turco e miscelare il tutto. Ed è così che sarebbe nato un classico della cultura viennese: il caffè melange, ancora oggi in gran voga. L'innovazione consentì al secondo locale di Kulczycki, Den Blauen Flaschen ossia 'La bottiglia blu' aperto nel 1686 al numero 6 della centralissima Domgasse, di divenire un'istituzione cittadina. 

Il Den Blauen Flaschen di Vienna in un’illustrazione del XVIII secolo. Kulczycki porta un fez, sulla destra.

Il Den Blauen Flaschen di Vienna in un’illustrazione del XVIII secolo. Kulczycki porta un fez, sulla destra.

A renderlo un luogo indimenticabile contribuiva il suo fondatore che vi aggiungeva un tocco di esotismo accogliendo i clienti vestito da dignitario ottomano con tanto di turbante e pantaloni alla zuava, raccontando le proprie avventure di prigioniero, traduttore, diplomatico e spia fra Belgrado, Vienna e Costantinopoli. La parte gli riusciva così bene che alcuni storici austriaci e ungheresi, negli anni a venire, avrebbero dubitato che fosse realmente polacco, sostenendo che si trattasse del serbo Djuro Kolèic. Eppure lo stesso Kulczycki – sempre che non lo facesse per confondere ulteriormente le acque – si dichiarava nato in Polonia, nella città di Sambor, l'odierna Sambir in Ucraina. Forse anche per questi suoi natali, esiste un'ulteriore ipotesi secondo cui il brillante inventore del caffè alla viennese sarebbe stato in realtà ucraino - o meglio ruteno - e di fede cristiano ortodossa. 

L'eredità della Bottiglia blu

La storia di Jerzy Franciszek Kulczycki viene citata, con alcune approssimazioni, nel libro 'Il monaco di Mokha' dello scrittore statunitense Dave Eggers dedicato alla picaresca ascesa nel mondo della torrefazione di un giovane americano di origini yemenite. L'autore sostiene che fu “Franz George Kohlshitsky” a inventare non solo il caffè alla viennese, ma anche a portare le coffehouse in Europa. Un'esagerazione, quest'ultima, che nulla toglie ai meriti dell'intraprendente polacco la cui vicenda ha ispirato Oltreoceano una nota catena di caffè per intenditori, la californiana Blue Bottle. 

Un francobollo commemorativo dedicato dalla Polonia a Kulczycki per la serie ‘Tracce polacche in Europa’ nel 2009

Un francobollo commemorativo dedicato dalla Polonia a Kulczycki per la serie ‘Tracce polacche in Europa’ nel 2009

Quali che fossero le sue origini reali o presunte, di sicuro Kulczycki è entrato a pieno titolo nella storia recente della sua città adottiva, Vienna. Nella capitale austriaca ancora oggi lo si può vedere servire orgoglioso il proprio caffè da una caratteristica moka turca dal beccuccio ricurvo in una statua che lo ritrae all'angolo fra Favoritenstrasse e la via a lui dedicata, Kolschitzkygasse. E fino agli albori del Novecento ogni ottobre un suo ritratto era esposto da tutte le migliori kaffeehaus austriache delle quali era una sorta di patrono laico. Divenuto un cittadino viennese al punto che il suo nome venne germanizzato in 'Georg Franz', Kulczycki desiderava che il proprio locale divenisse un punto d'incontro dall'atmosfera piacevole dove la bevanda principe del mondo arabo facilitasse il dibattito e lo scambio d'idee. 

Ed è questo lo spirito che avrebbe contraddistinto e reso celebri i caffè di Vienna nel XIX e XX secolo quando seduti ai loro tavolini vi si potevano incontrare eminenti letterati come Elias Canetti, Arthur Schnitzler e Stefan Zweig, grandi pittori quali Gustav Klimt ed Egon Schiele oltre a Sigmund Freud e Lev Trockij. Oggi quell'atmosfera ovattata creata dal frusciare di quotidiani cartacei, dal tintinnare di cucchiaini in tazze di caffè melange e da lunghe, pacate, conversazioni è divenuta parte del patrimonio culturale viennese, tanto da essere tutelata persino dall'Unesco. E chissà come si servirebbe e degusterebbe oggi il caffè a Vienna e dintorni se quella sera del 13 agosto 1683 Kulczycki avesse dimenticato una strofa di un motivetto turco durante la sua missione in cerca di rinforzi attraversando l'accampamento ottomano.

*traduzione dal polacco a cura di Salvatore Greco.

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