L'agonia dei sindacati nel Paese di Solidarność
di Salvatore Greco
Gniezno, 65mila anime alle porte di Poznań, nella Polonia centro-occidentale, non è un posto di cui capita spesso di parlare. È un nome che ad alcune orecchie suona familiare perché secondo la leggenda, questa cittadina sarebbe stata il nucleo fondativo del proto-stato polacco del IX secolo, quella da cui partirono i condottieri della dinastia Piast diventati poi i primi re di Polonia. A parte queste referenze storiche, tuttavia, non c’è molto altro a cui riferirsi parlando di Gniezno. O perlomeno è andata così fino all’estate del 2025. Nella zona industriale di questa cittadina, infatti, si trova uno stabilimento di cui i media polacchi hanno parlato molto in quelle settimane: la sede produttiva e distributiva del gruppo Jeremias, un’azienda tedesca specializzata in camini industriali e canne fumarie, che ha una sede anche in Italia, naturalmente in Veneto, pochi chilometri a sud di Verona.
Jeremias è entrata nel mercato polacco nel 1997 rilevando, probabilmente a prezzo di favore, una vecchia fabbrica statale che il nuovo governo post-comunista di Varsavia non vedeva l’ora di privatizzare. Le cose sono andate più o meno lisce fino a un paio di anni fa quando un gruppo di operai ha iniziato a chiedere sempre più rumorosamente aumenti di stipendio, pause più lunghe e una gestione più rispettosa dei turni e degli straordinari. Le cose si sono fatte ancora più complicate quando gli operai più tenaci nel fare queste rivendicazioni si sono costituiti come assemblea sindacale e si sono uniti a IP, Inicjatywa Pracownicza, un sindacato di base simile ai Cobas italiani, famoso per il suo spirito combattivo.
Jeremias Polska all’inizio ha ignorato le richieste dei rappresentanti sindacali, poi ne ha licenziati due e ha dovuto riassumerne uno dopo la sentenza del tribunale, ma impedendogli al contempo di entrare nel perimetro della fabbrica. I dirigenti dello stabilimento si sono detti pronti a pagare tutte le penali necessarie per condotta antisindacale, ma hanno fatto capire che non avrebbero accolto le richieste dei lavoratori. A quel punto, il 4 giugno, gli operai e le operaie hanno iniziato il picchetto di cui lentamente ha iniziato a parlare tutta la Polonia e a cui si è interessata anche la ministra del Lavoro, rappresentante dell’ala progressista del governo, Agnieszka Dziemanowicz-Bąk. A quel punto Jeremias le ha provate tutte, isolando gli scioperanti, assumendo crumiri e minacciando licenziamenti, ma alla fine ha dovuto sedersi al tavolo della trattativa e ha accettato gran parte delle richieste su aumenti, pause e turni.
Lo sciopero si è concluso il 14 luglio 2025, dopo 40 giorni di picchetto. Hanno esultato i lavoratori della fabbrica, i rappresentanti del sindacato Inicjatywa Pracownicza e anche la rappresentanza parlamentare della sinistra polacca, divisa oggi tra maggioranza e opposizione. Il resto del Paese sembra più concentrato su altri temi, ma intanto c’è un dato incontrovertibile: c’è stato uno sciopero in Polonia, ha avuto successo e questa è una notizia che non si sentiva da quasi quarant’anni.
Una foto degli operai e delle operaie di Jeremias Polska durante lo sciopero. Foto di Inicjatywa Pracnownicza.
La trasformazione della parola strajk
La parola polacca per dire sciopero è strajk e non serve essere esperti di linguistica per capire che si tratta di un calco fonetico dall’inglese. Di scioperi importanti in Polonia ce ne sono stati molti nella storia: già durante la rivoluzione industriale, nei territori controllati dalla Prussia, poi nella parte dominata dalla Russia zarista ispirati dal primo vento bolscevico che soffiava da Pietroburgo e poi ancora negli anni ’20, tra i minatori della Slesia. Inoltre, non possiamo dimenticare i grandi scioperi della seconda metà del XX secolo, quelli che hanno svelato le storture dello Stato socialista, nato per tutelare la classe operaia e finito a sopprimere le sue proteste nel sangue. Lo sciopero di Poznań del 1956 e quello di Danzica del 1980 oggi sono simboli della storia polacca ed è stato un sindacato, Solidarność, a condurre il Paese verso la democrazia liberale.
Eppure nel tempo la parola strajk si è un po’ annacquata o, perlomeno, riposizionata. Negli ultimi 10 anni, a prendersi il suo spazio semantico è stato il movimento femminista con lo Strajk Kobiet, la protesta contro le leggi che in Polonia limitano gravemente l’accesso all’interruzione di gravidanza. Lo “sciopero delle donne” è stato, ed è ancora, un movimento dalla forza straordinaria, che ha portato centinaia di migliaia di persone in piazza persino in piena pandemia e ha posto problemi politici e sociali molto importanti. Tuttavia, non è uno sciopero nel senso canonico del termine. In Italia, dove la tradizione dell’antagonismo è più lunga e più definita, le definiremmo manifestazioni più che scioperi.
Se in Polonia questa differenza si è assottigliata nel tempo fino a diventare quasi invisibile, probabilmente è perché di scioperi nel vero senso della parola non ce ne sono quasi più. Pochissime persone credono nella pratica collettiva per migliorare le proprie condizioni di lavoro e i sindacati - con rare eccezioni- sono strutture vecchie, imbolsite, compromesse con la politica e incapaci di interfacciarsi con il mercato del lavoro di oggi. Nel Paese nato da Solidarność, dove un sindacalista è stato il primo presidente della Repubblica liberamente eletto, sembra un contrappasso curioso.
Da un sindacalista Presidente
a un Paese senza sindacati
In realtà, a pensarci bene, l’agonia dei sindacati in Polonia è un prodotto coerente della sua storia, ma occorre andare con ordine. Negli anni del comunismo, tutti i luoghi di lavoro avevano delle assemblee interne, ovviamente sotto lo stretto controllo del Partito e non avevano un vero e proprio ruolo sindacale. Del resto, senza capitalisti non poteva esserci conflitto e dunque non avevano senso di esistere delle istanze dei lavoratori in contrasto con quelle dei mezzi di produzione. Sulla carta, naturalmente. Nel 1980 dai malumori degli operai dei cantieri navali di Danzica nasce Solidarność, che chiede libertà e democrazia. Un modello che poi si replica in altri stabilimenti e in altre città, con le stesse istanze. Fino al 13 dicembre 1981, quando il generale Jaruzelski impone la legge marziale, i carri armati scendono per le strade e tutte le organizzazioni non statali vengono chiuse, a partire proprio da Solidarność.
Nel 1982, finita la legge marziale, il governo concede l’apertura di organizzazioni sindacali purché alle proprie condizioni. Così nasce il sindacato chiamato Opzz dove si ritrovano le persone insoddisfatte del funzionamento del sistema socialista, ma che non hanno l’obiettivo di sovvertirlo, o perlomeno non credono di poterlo fare. I più fumantini e gli anticomunisti incalliti restano nella rete di Solidarność, che continua a operare in clandestinità.
Il resto della storia lo conosciamo. Appoggiato dall’occidente e dal Papa polacco Giovanni Paolo II, Solidarność diventa un movimento sociale e politico sempre più forte, praticamente un partito. Il suo leader, Lech Wałęsa, diviene il volto della transizione alla democrazia e viene eletto presidente della Repubblica.
Solidarność a quel punto, seppure formalmente sia ancora un sindacato, non lavora più in quella direzione. Addirittura, nell’ubriacatura capitalista degli anni ’90, Wałęsa sostiene il depotenziamento dei sindacati, perché teme che le lotte dei lavoratori possano scoraggiare gli investimenti esteri e le privatizzazioni, cose che rallenterebbero il percorso di avvicinamento all’Europa occidentale. Le parole d’ordine, inusuali per un sindacato, sono quelle di non disturbare i manovratori e i volti simbolo a cui fare riferimento sono quelli di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, quest’ultimo non a caso tributato di statue e piazze in giro per la Polonia.
In questo carnevale capitalista, dove tutti sembrano pronti ad arricchirsi e dove “la società non esiste, esistono gli individui”, una voce di dissenso per la verità c’è. Nessuno nel Paese è davvero nostalgico del vecchio sistema, o perlomeno nessuno lo dice apertamente, ma ci sono partiti e sindacati che non vogliono buttare il bambino (il welfare garantito) con l’acqua sporca (l’assenza di libertà). Tra questi c’è il vecchio sindacato Opzz, quello nato nel 1982 e conciliante con lo Stato comunista, che raccoglie attorno a sé i più prudenti verso il nuovo sistema.
Il ruolo di Opzz è, nel migliore dei casi, un lavoro ingrato e il sindacato negli anni 2000 diventa quasi una succursale del partito socialdemocratico allora molto in voga Sld, mentre Solidarność si consolida nel suo ruolo conservatore, anticomunista, atlantista e cattolico. Un dualismo che non fa bene ai due sindacati, che diventano quasi indistinguibili da partiti politici, fondamentalmente inutili nelle contrattazioni e molto poco popolari tra le fasce più giovani della forza lavoro. Entrambe le associazioni esistono ancora, ma il loro ruolo è sempre più marginale e i loro iscritti sono crollati. Opzz è passato da quattro milioni di tessere nel 1984 alle 800mila scarse del 2011. Solidarność non mostra pubblicamente i suoi dati storici, ma è lecito pensare che siano comparabili.
Un giovane Lech Wałęsa portato in trionfo durante lo sciopero ai Cantieri Navali di Danzica del 1980. Foto di Stanisław Składanowski dall’archivio del Centro Europeo di Solidarność.
Chi ha paura dei corpi intermedi?
Oggi le persone iscritte a un sindacato in Polonia sono soltanto un milione e mezzo e corrispondono al 10% scarso della forza lavoro. Le categorie più sindacalizzate sono quelle legate ai lavori tradizionali: minatori, insegnanti, personale medico e sanitario, personale del settore energetico. Chi lavora nei servizi, nel turismo, nel commercio o nell’accoglienza non aderisce quasi mai a un’associazione di categoria. In molti casi non sembra necessario, sia perché in Polonia esiste una legge sul salario minimo che de facto limita l’operatività dei sindacati sulle trattative per i contratti sia perché l’economia qui è in salute nonostante l’inflazione e i costi dell’energia. Inoltre, seppure il trend stia cambiando, il mercato del lavoro è ancora molto dinamico e soprattutto per le persone giovani delle grandi città è comune cambiare impiego più volte nella vita negoziando di volta in volta condizioni di lavoro sempre migliori. Cosa potrebbe offrire un’associazione di uomini anziani con siti web antiquati e social network gestiti in modo antediluviano a questi giovani manager e lupacchiotti di Wall Street in rampa di lancio?
Inoltre, da anni la politica spinge più o meno dichiaratamente verso rapporti di lavoro più fluidi. Il numero dei lavoratori e lavoratrici con partita Iva cresce continuamente e di recente il governo Tusk ha portato avanti una controversa riforma per esonerare questo gruppo di persone dal pagare i contributi per il sistema sanitario nazionale. Questo piccolo esercito di autonomi è fatto naturalmente di imprenditori, parrucchieri, estetiste, panettieri, informatici, consulenti legali ma non mancano come in Italia le finte partite Iva, persone incoraggiate o obbligate a questo sistema seppure all’interno di un rapporto di lavoro dipendente per evitare di pagare più tasse. Per tutti e tutte loro, ovviamente, un’associazione sindacale, anche se fosse auspicabile, non sarebbe nemmeno possibile.
In un mercato del lavoro sempre più atomizzato, dove si incoraggia alla concorrenza molto più che alla solidarietà, c’è un elemento che stona con questo algoritmo ed è naturalmente quello del lavoro povero, soprattutto nelle fabbriche e nei magazzini della grande logistica. Anche la Polonia ha raggiunto quella fase del capitalismo in cui ci sono lavori che i polacchi non vogliono più fare e al loro posto sempre più spesso arrivano persone dalla Bielorussia, dall’Ucraina e persino dall’estremo oriente. Nei magazzini di smistamento di Amazon, nei cantieri e nelle fabbriche, ormai abbondano i casi di lavoratori e lavoratrici di origine straniera assunti in nero, il crumiraggio e casi come quello di Jeremias da cui abbiamo cominciato. Queste aziende vedono con il fumo negli occhi i tentativi di formare comitati sindacali e ovviamente cercano di ostacolarli in tutti i modi, non di rado violando le norme che in teoria consentono ai lavoratori di associarsi.
I grandi sindacati confederali tuttavia sono perlopiù assenti da questi contesti, anche per via dei loro rapporti con la politica. Solidarność per esempio sembra più un museo di sé stessa che un vero sindacato, si occupa di commemorazioni storiche, riconoscimenti per i vecchi membri e le rare volte in cui il suo segretario parla in pubblico, lo fa per occasioni politiche come recentemente per invitare gli iscritti a votare per il candidato presidente - poi eletto - della destra, Karol Nawrocki. Come dimostra il caso di Jeremias, le sigle sindacali davvero attive in Polonia oggi sono quelle di base come Inicjatywa Pracownicza i cui rappresentanti da anni sono gli unici a organizzare scioperi e vertenze nei luoghi dove è possibile e necessario, vale a dire soprattutto nel reparto produttivo e nella logistica, ma non solo. Ip da anni comprende sotto il suo ombrello anche un sindacato degli inquilini per coordinare le necessità delle persone colpite da aumenti dell’affitto indiscriminati o vittime del fenomeno della reprywatyzacja a cui abbiamo dedicato un longform un po’ di tempo fa.
Nonostante i buoni risultati, è improbabile che il modello di Inicjatywa Pracownicza possa diventare egemone in Polonia: l’esperienza negativa del socialismo reale ha cancellato in almeno due o tre generazioni qualsiasi fiducia negli strumenti collettivi. La fiducia, a sorpresa, potrebbe arrivare dalle persone più giovani tra le quali sembra nascere un bisogno di giustizia sociale da ottenere con le lotte. Lo dimostra il crescente sostegno tra gli under-30 per il candidato della sinistra anti-sistema alle presidenziali Adrian Zandberg, che nella sua campagna elettorale ha fatto molta attenzione a pesare le parole, parlando di politiche sociali e libertarie evitando di usare slogan della sinistra più tradizionali e per questo più compromessi. Chissà che le lotte sindacali in Polonia non debbano fare un percorso simile, abbandonando parole e simboli che ormai hanno perso valore. Anche a partire da solidarność, solidarietà, oggi persino più sbiadita e depotenziata dello stesso strajk.